MEMORIE DI TOTO': San Giovanni Decollato e la "piattata" (a cura di Domenico Livigni)
Il produttore Liborio Capitani, dopo aver intuito il
talento di Macario (per il quale finanziò due film, Il pirata sono io! e Non me lo dire!), confidò sull’avvenire
cinematografico dell’attore partenopeo, che proveniva da due rilevanti
sconfitte. La scelta, in verità, cadde su Totò per volere della sorte.
Capitani, estimatore di Angelo Musco, produsse ben sette pellicole dell’attore
catanese e acquistò i diritti della commedia San Giovanni decollato di Nino Martoglio, per un probabile ottavo
film. Soggetto che Musco avevo già portato in scena, sia a teatro che al
cinema, diventandone il massimo interprete. Ma la scomparsa improvvisa
dell’attore, avvenuta il 6 ottobre del 1937, ribaltò tale disegno, bloccando
l’avvio del film e intavolando anche approcci di ricerca, per scovare un altro
fuoriclasse degno di Musco. La commedia di Martoglio rimase ferma sulla
scrivania di Capitani per tre anni, fino a quando il produttore, dopo aver
girato piccoli e grandi teatri di avanspettacolo, si convinse che quel comico
napoletano, dagli atteggiamenti di un burattino discolo e sfrontato, potesse
essere utile al suo caso.
Una sera del giugno 1940, al Teatro Valle di Roma,
Totò recitava, con la sua compagnia, Tra
moglie e marito la suocera e il dito di Antonio de Curtis (Rivista in due
tempi e sedici quadri). Un successo che fece smascellare il pubblico dalle
risate, e grazie al quale l’attore ebbe in camerino il primo contatto diretto
con Capitani, che gli propose senza indugio una scrittura per il suo nuovo
film. Totò ebbe come partner femminile un’attrice perfetta, Titina De Filippo,
con la quale aveva già avuto modo di lavorare nella compagnia Molinari di Eugenio
Aulicino (stagione 1929/1930). Per la scelta del regista, Capitani, dopo
“l’abdicazione” di Cesare Zavattini, pensò di ingaggiare Amleto Palermi, autore
di una notevole esperienza in rifacimenti “dal teatro al cinema”. Le riprese di
San Giovanni decollato iniziarono il
16 settembre del 1940, e il testo originario di Martaglio fu rimaneggiato dal
regista e dai due sceneggiatori: Cesare Zavattini e Aldo Vergano. Tratta da una
commedia siciliana, era la storia di un portinaio-ciabattino, mastr’Agostino,
uomo fortemente devoto a San Giovanni decollato e non capito dalle sue donne di
casa. La moglie, donna anzianotta, lo considerava pazzo e irresponsabile,
mentre la figlia gli stava contro perché non consenziente alle nozze da lui
imposte con il lampionaio Orazio. Unico amico e confortatore delle disgrazie
domestiche era il suo quadro, posto su una parete del cortile condominiale, che
ritraeva il volto del santo martirizzato. Martirizzato e maltratto anche da un
ladro ignoto, che rubava insistentemente l’olio del lumino. Gli sceneggiatori,
con la collaborazione di Palermi, dislocarono l’ambientazione tipicamente
siciliana in una Napoli del primo ‘900, mettendo in risalto le figure e i suoni
pittoreschi della napoletanità popolare. Primo fra tutti, il personaggio di don
Peppino Esposito, guappo “di cartone” e intermediario di Orazio, un’immagine
elaborata per questa riedizione del testo di Martoglio. Un guappo quasi da
macchietta, raffigurato con i canoni della “rispettabilità”, con atteggiamenti
imperiosi e dispotici e soprattutto agghindato come “un uomo tutto d’un pezzo”:
bombetta grigia, giacca e pantalone a quadretti, gilet in raso e bastoncino di
bambù. Personalità di svolta per lo sviluppo della storia, proprio perché il
mistero del furto dell’olio, che nel testo siciliano perdurava senza una
soluzione, nel riadattamento di Palermi veniva a galla, essendo don Peppino il
losco ladro. La frenesia corporale e la loquacità insofferente della maschera
di Angelo Musco furono sostituite dignitosamente dallo scuotimento e dalla
ridondanza dell’oscillazione emblematica di Totò, tanto da diventare artefice
di momenti inimmaginabili, come “la grande guerra di piatti” della sequenza
finale. Scena che, su copione, denotava la rottura di un solo piatto sulla nuca
del “reputato” guappo (interpretato dall’attore Augusto Di Giovanni), ma Totò,
con il forte sostegno del regista, aggiunse ben altri 1000 piatti. Una guerra
di “colpi vaganti”, alla quale partecipò tutta la troupe, includendo lo stesso
Capitani con il direttore di produzione e l’operatore tecnico: l’avvocato Sylos
e Ferdinando Risi.
Un cronista della rivista Film, avendo assistito a questo “tumulto popolare”, in proposito
scrisse: <<Amleto Palermi ha compiuto il miracolo della moltiplicazione
dei piatti: il piatto che Totò (alias Agostino Miciaccio), protagonista del
film, doveva rompere sulla testa di Don Peppino il guappo, ha dato ali alla
fantasia del nostro regista il quale ha ordinato per il giorno dopo mille
piatti. […] I piatti volavano per l’aria, si rompevano sulle pareti del tinello
siciliano, sulla testa di Passarelli, degli invitati, sfioravano le venerande
chiome di Bella StaraceSainati e di Maso Marcellini, uscivano dalle finestre,
rientravano dai praticabili, volteggiavano tra le lampade da 500. […] Per 48
ore il teatro N. 6 è stato il paradiso dei cocci, l’eden dei nostri desideri
finalmente liberati: tutti erano tornati, con la totale allegria delle comiche
finali. […] Ma ecco il resoconto di questa piattata,
resoconto che nella sua semplicità ed esattezza vi darà l’impressione di quello
che è avvenuto nel teatro N. 6 durante i giorni 4 e 5 ottobre: Piatti rotti:
1000. Attori feriti: 3. Metri di pellicola girata: 2000. Lanciatori di piatti
in scena: 50. Lanciatori di piatti avventizi: 10. Lanciatori di piatti furtivi:
5. Ore straordinarie di lavoro: 12. […] Totò ferito vero e proprio. Una
contusione al braccio. E dall’incidente il nostro comico traeva motivo per fare
dell’umorismo. – Dove siete colpito? – domandavano tutti ansiosamente. –
Indovina un po’? rispondeva Totò. Chi lo toccava, chi lo auscultava, venti mani
palpavano il suo corpo con affettuosa premura, e Totò gridava: “acqua,
acqua…fuoco, fuoco…”. Amleto Palermi impassibile osservava la scena: il suo
mento correva a destra e a sinistra cercando un’idea: - Faremo un film Totò malato – disse Palermi
[…]>>.
Una ripresa sensazionale, dove Totò fu capace di sprizzare tutta la sua
rabbia e la sua ilarità, evidente anche nel celeberrimo numero dei fuochi
d’artificio, un’attrazione di mani e di strizzate d’occhio, che lo portava
finalmente ad essere il mattatore del grande schermo.
Tratto da “Macario e Totò” di
Domenico Livigni, dal volume "Totò con i 4" (Apeiron edizioni, SERIE
ORO).
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